Antonella Vecchi: “Siamo umane risorse, artefici della nostra felicità sul lavoro”

Nell’epoca della digitalizzazione la questione umana diventa ancora più centrale, soprattutto nelle aziende. Come cambieranno le competenze, come evolverà il rapporto tra uomo e macchina? Quella che non va persa di vista è l’umanità, la valorizzazione del benessere dei lavoratori, a tutti i livelli gerarchici. E per raggiungere l’obiettivo deve esserci consapevolezza sia da parte di chi sta ai vertici che da parte dei lavoratori. È a questi ultimi che si rivolge Antonella Vecchi nel suo libro “Umane risorse. Come restare umani sul lavoro” (Edizioni Libreria Cortina Verona). Direttore delle Risorse Umane di una azienda pubblica di grandi dimensioni, Antonella Vecchi promuove un approccio che parte dalle persone, espressione di un’esigenza sempre più diffusa che si fonda su ricerche scientifiche, secondo le quali il benessere organizzativo è la strada maestra per raggiungere gli obiettivi aziendali. Se le persone sono felici, lavorano meglio, sono più motivate ed efficienti.

Cosa l’ha spinta ad adottare questo nuovo approccio, nell’approfondire le dinamiche che caratterizzano le risorse umane di un’azienda?
Ho imparato a guardare all’impresa come a un palcoscenico, accendendo i riflettori sulle persone che vi lavorano, indipendentemente dal ruolo che hanno. Sono infatti sempre stata convinta che la risorsa umana non smette mai di essere una persona che, nel momento in cui lavora, fornisce il suo apporto produttivo in azienda esprimendo la sua unica e irripetibile personalità. Grazie a questa unicità, ognuno di noi manifesta le proprie potenzialità al lavoro in modo peculiare.

Come ha sviluppato questa visione?
Ho sempre lavorato in questo settore, entrando in diverse aziende anche con ruoli differenti, per scelta e per curiosità. Ho potuto così approfondire il tema da entrambi i punti di vista: come manager e come risorsa umana. In questo mio percorso ho capito l’importanza di partire sempre dai punti di forza della situazione nella quale ci si trova, lavorando sul positivo e non su ciò che non va. Cerco di spingere verso questo approccio anche coloro che, in azienda, vivono situazioni di disagio.

Quali sono le più frequenti?
Prevalentemente quelle che riguardano le relazioni, in particolare nei rapporti gerarchici, e la mancata congruità tra le aspettative individuali e quelle aziendali. Spesso gli obiettivi aziendali non coincidono con quelli individuali e qui si genera il conflitto. Anche la conciliazione vita-lavoro è spesso fonte di malessere. In molti casi le persone vivono con così tanto disagio queste situazioni, talvolta fisiologiche, da non essere in grado di trovare una soluzione in modo autonomo. È come se si creasse un cortocircuito mentale dal quale non riescono a uscire.

Lei suggerisce un cambio di approccio. Come può avvenire?
Nelle situazioni di disagio, di insoddisfazione, i lavoratori tendono a dare la responsabilità al capo. Ma non sempre è vero: le relazioni sono bilaterali, sebbene non paritarie perché gerarchiche. È fondamentale capire se si è felici nel proprio posto di lavoro, dove cioè si trascorre la maggior parte del tempo. E la nostra vita non va sprecata: “mentre lavoro vivo” è il mio slogan. Non si lavora solo per i soldi ma anche per autorealizzarsi. Diventa allora importante porsi le domande giuste: il contesto dove lavoro consente la mia autorealizzazione? Sono felice nel ruolo che occupo? Cosa potrei fare per esserlo di più?

Lei queste domande se le è poste: nel libro racconta di aver vissuto momenti di disagio lavorativo. Come si possono superare?
In tutti i casi di disagio lavorativo, credo che per chi ne soffre sia liberatorio parlarne: la narrazione dà senso, mette ordine e modifica i significati su cui riflettere. Socializzare l’esperienza poi, aumenta la nostra consapevolezza e ci aiuta a vedere come questa cambia. Chi è consapevole non subisce, ma può rielaborare. Se non si affronta questo percorso, il terremoto emotivo rischia di trasformarsi in bisogno di vendetta, in un groviglio di sentimenti negativi. La consapevolezza poi porta a focalizzarsi sui propri bisogni e ad avere cura di sé, a porsi le domande giuste per trovare una via d’uscita.

Una via d’uscita c’è sempre? Come la si trova?
Spesso è più facile restare in una situazione di disagio, nella cosiddetta zona di comfort: sebbene crei malessere regala sicurezza e permette di delegare agli altri la responsabilità della propria felicità. Ma sono io, lavoratore, il responsabile di una scelta che potrebbe portarmi verso la felicità. Se decido di prendermi cura di me e di percorrere questa strada devo cambiare approccio, diventare proattivo con il capo o con i colleghi. Se questo cambio di approccio non porta risultati, posso valutare alternative estreme, come cambiare lavoro; oppure restare, modificando atteggiamento e obiettivi. In entrambi i casi serve molto coraggio. Il coraggio di essere responsabili della propria felicità, nella vita come sul lavoro.

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