Ho iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia

Accade spesso, negli ultimi anni, di incontrare giovani aspiranti imprenditori che alla domanda «Di cosa ti occupi?» rispondono «Sono entrato da poco nell’azienda di famiglia». Le PMI italiane, specialmente in questi anni caratterizzati da evoluzioni del mercato molto rapide, cambiano i propri vertici. Essendo il nostro un tessuto imprenditoriale fondato sulle aziende di famiglia, un cambiamento di questo tipo significa molto spesso dover affrontare un cosiddetto passaggio generazionale. Quali sono i principali problemi insiti in questa fase così determinante per il proseguimento dell’azienda?

Parliamo di imprese a conduzione familiare, dove famiglia ed impresa si trovano a convivere, in molti casi anche fisicamente, cioè quando l’azienda ha sede in una dependance dell’abitazione dell’imprenditore. Il sistema valoriale della famiglia si riflette sull’azienda e le funzioni principali sono ricoperte da persone che condividono il cognome.

«A Natale, Pasqua e a Ferragosto le nostre famiglie stanno insieme. E si finisce a parlare di lavoro, dell’azienda. Non si stacca mai, si deve far così per stare in piedi». Oppure: «Sin da piccolo passavo le vacanze estive in azienda. Poi alle superiori, finito di studiare via a lavorare in laboratorio da mio padre. Quindi, una volta diplomato, sono entrato nell’impresa di famiglia». Frasi come queste rappresentano bene le nostre imprese e non dimentichiamo che questa visione ha permesso a territori come il Nord Est o la Brianza di diventare grandi centri di produzione.

Oggi però le dinamiche e le dimensioni del mercato non permettono più automatismi simili. Le aziende hanno bisogno di figure più eclettiche, in grado di muoversi al di fuori del proprio settore specifico. Bisogna essere in grado di fare esperienze diverse, avere una maggiore facilità di controllo e di apertura alla sperimentazione di nuovi strumenti per lo sviluppo.

Ma non è detto che il figlio sia più imprenditore del padre. I dati sembrerebbero dirci il contrario. È opportuno chiarire che fare impresa nel mondo post Lehman Brothers non è paragonabile ad averlo fatto negli anni ’60, ’70 e ’80. La convinzione che l’azienda debba rimanere nelle mani della famiglia del fondatore genera un’enorme aspettativa sugli eredi, che spesso si rivela fonte di grandi tensioni. Da un lato viene messa alla prova la capacità dell’erede e dall’altra la capacità dell’imprenditore a trasferire la cultura aziendale.

I fattori critici del passaggio generazionale non riguardano solo la famiglia, ma coinvolgono tutte le componenti dell’azienda. Il personale si rende conto che qualcosa sta cambiando e comprensibilmente si domanda cosa succederà dopo. Le dinamiche relazionali interne iniziano a risentirne: la leadership è ancora saldamente nelle mani dell’imprenditore, ma si insinua il dubbio sulle capacità dell’erede, sulle sue competenze, sulla sua visione del business. Un effetto simile si riscontra anche verso i clienti. Gli eredi che si stanno inserendo nell’azienda di famiglia, si trovano spesso a confrontarsi con un atteggiamento di diffidenza dei clienti storici, che faticano ad affidarsi a qualcuno di diverso dall’imprenditore. In questi casi tutto è affidato alle capacità di delega dell’imprenditore. Se è in grado di trasferire in modo sistematico e con i giusti accorgimenti temporali le responsabilità, tutta la struttura interna è messa nelle condizioni di verificare, passo dopo passo, che la continuità dell’azienda non è in pericolo (almeno nel medio-breve periodo). Ugualmente, se riesce ad accompagnare il passaggio agli eredi, i clienti stessi sono rassicurati sul fatto che l’azienda conosce ancora i loro bisogni.

E quindi, come si fa?

Non c’è una soluzione perfetta per un passaggio generazionale di successo. Non esiste un’opinione unitaria tra gli studiosi del fenomeno, neppure gli imprenditori che ne hanno fatto esperienza sono in grado di dare una risposta chiara. Si tratta di una fase molto complessa, pertanto anche le risposte sono complesse.

Tra gli studiosi è molto interessante la posizione di alcuni accademici che sostengono che l’unico modo per trasferire un’azienda dal fondatore agli eredi sia il completo e veloce trasferimento dei clienti. Il patrimonio di un’azienda sono i clienti, pertanto “passa il patrimonio alle nuove leve e lasciaglielo gestire”. Gli esiti possono essere i più diversi, ma almeno la scoperta avviene in tempi brevi e si può correggere repentinamente.

Alcuni imprenditori sostengono invece la “convivenza generazionale”, che consente all’erede di entrare in azienda in tempi più lunghi sotto la supervisione dell’imprenditore. L’esperienza insegna, però, che la convivenza è sempre cercata dall’imprenditore, mentre l’erede mal sopporta la presenza della vecchia guardia per periodi lunghi. Oppure vi si adagia annullando così l’efficacia dell’affiancamento per il passaggio.

Esiste poi l’ipotesi della soluzione lampo, secondo la quale il passaggio “va fatto in un giorno” (o in alcuni mesi, nella forma più soft). Anche se ho visto molto spesso passaggi di successo verificatesi in questa modalità, va sottolineato che generalmente si tratta dell’esito di eventi traumatici (personali o aziendali) e quindi avvenuti in condizioni non augurabili. Visto il successo ottenuto, molti modelli accademici stanno però studiando la possibilità di pianificare soluzioni di questo tipo anche in assenza di eventi coercitivi.

Ogni azienda, ogni famiglia e ogni storia sono diverse, non si può conoscere il modello giusto a priori. Soprattutto sono diverse le persone e non c’è modello peggiore di quello che non considera la realtà alla quale va applicato.

Nella maggioranza dei casi analizzati, sia di passaggi intra-famigliari che extra-famigliari, è emerso che per una migliore riuscita il fenomeno va pianificato per tempo. Risulta molto difficile pianificare un evento che riguarda l’azienda e la famiglia, i rapporti famigliari e quelli aziendali, la visione nel breve periodo così come quella nel lungo. La pianificazione deve quindi coinvolgere tutti i soggetti (l’imprenditore con la famiglia, la famiglia degli eredi, il personale etc.) e soprattutto deve contemplare tutte le strade. Eventualmente anche quella per cui, per consentire che l’azienda duri nel tempo, potrebbe essere più ragionevole non trasferirla ai figli in assenza della loro volontà e delle capacità di guidarla.

L’attore comico Paolo Cevoli afferma: «I figli degli imprenditori si dividono in due categorie: quelli che portano l’azienda alla rovina e quelli che ci mettono un po’ di più». Facciamo in modo che non sia così!

Francesco Masini
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