Andrea Bissoli, presidente Confartigianato Verona, incontra Cassiopea

L’artigiano del futuro? Sarà tecnologico e innamorato della cultura italiana

Un settore antico ma non vecchio, con botteghe che aprono all’innovazione eppure offrono sempre al cliente un servizio unico. Largo ai giovani, che internazionalizzino le imprese con la forza del made in Italy. Anche senza l’aiuto di una politica che non capisce e non ascolta.

Andrea Bissoli,  presiede dal 2011 Confartigianato Verona, l’Unione Provinciale Artigiani. Originario di Cerea. Sposato, è artigiano nella categoria Legno-Arredo: nel 1999 ha rilevato l’azienda del padre dedicata al restauro di mobili, cornici e complementi d’arredo. Nel 2000 è Delegato comunale a Cerea, poi membro di Giunta esecutiva dell’Associazione e consigliere della Federazione di categoria Legno-Arredo. Nel corso degli anni ha fatto parte della Commissione Provinciale per l’Artigianato della Camera di Commercio di Verona, della quale è ancor oggi membro di Giunta. Nel giugno 2015 viene rieletto per il secondo mandato, mentre nell’ottobre 2016 entra a far parte della Giunta nazionale di Confartigianato. Nei 70 anni di storia associativa Andrea Bissoli è stato ed è il più giovane presidente chiamato a guidare la Confartigianato di Verona.

Andrea Bissoli, lei è presidente di Confartigianato Verona e ha raccolto da suo papà una piccola azienda nel settore dell’arredamento. Dovrebbe avercela a morte con l’Ikea…
“Ma neanche per sogno! Abbiamo prodotti diversi e non siamo in contrapposizione. Certo, fino a vent’anni fa comprare mobili significava design, alta qualità, pezzi di antiquariato o di pregio che davano un tono importante alla casa: ma non tutti potevano permetterseli. Oggi con la crisi si cerca la funzionalità a prezzi accessibili, non l’arte né una produzione di nicchia. Anzi, sa cosa le dico? Molti artigiani lavorano anche per l’Ikea, visto che il mercato di una volta, fatto di progetti e lavorazioni a mano, dorature e riparazioni non esiste più”.

Ma è solamente una questione di ristrettezze economiche o c’è dell’altro?
“C’è anche il cambiamento nei gusti del pubblico, oltre all’apertura del mercato: non è che i mobili di nicchia siano destinati a sparire, però un tempo ci muovevamo in Italia, anzi sul territorio, mentre oggi il mercato è globale e siamo “costretti” a internazionalizzare. Poi ci sarebbe bisogno anche di cambiare mentalità, formarsi sulle innovazioni e acquisire una nuova cultura d’impresa. Anche un artigiano può trovarsi a usare una macchina che lavora in 3D: servono professionalità e qualificazione per seguire i clienti, dar loro la consulenza che si attendono. Direi che l’artigianato deve cambiare perché il mondo è cambiato”.

La sua riflessione somiglia alla visione di Industria 4.0 per il manifatturiero.
“Infatti anche noi ci sentiamo coinvolti in questa rivoluzione verso un modo nuovo di fare impresa. Abbiamo bisogno di crescere e ci sono modelli di investimento che anche i piccoli possano sostenere: tra noi non ci sono solo vecchie botteghe, ma anche le start up. Meglio ancora: le botteghe conservano il loro appeal e ritornano all’antico tramite la tecnologia. Il ciabattino riprende a fare scarpe su misura, ma scansiona a New York il piede del cliente e poi gli recapita la scarpa realizzata a Verona. Sa cosa mi dispiace? Che in Italia non si faccia nulla a favore dei giovani: non ci manca il business, ma chi possa dargli nuova linfa”.

Eh, ma il lavoro manca per tutti… Secondo lei è colpa delle imprese o della politica?
“Le imprese hanno le loro colpe, ma potrebbero fare già molto per l’impiego dei giovani. È la politica che spesso è sorda: e comunque è lenta o fa danni. Prenda i voucher: abolirli è stato un danno non solo per le aziende, ma soprattutto per i ragazzi, le imprese dei servizi, l’agricoltura. Hanno eliminato lo strumento lasciando intatte le distorsioni. E poi pesa il macigno del fisco, si insiste con gli studi di settore che non fotografano la realtà. In questi ambiti però le piccole imprese possono contare su una rappresentanza associativa utile a raccogliere i segnali di criticità: noi facciamo sentire la loro voce, come nel caso del Sistri, la tracciabilità dei rifiuti nata morta ma mai seppellita, le strettoie del mercato del lavoro, il credito che non c’è. Ma la politica questi segnali non sa o non vuole coglierli. Mai”.

E quindi se le istituzioni restano così sorde a voi che cosa rimane da fare?
“Rimane… fare, appunto. Ci siamo attrezzati per dare servizi e consulenza, facilitiamo gli adempimenti normativi e fiscali, facciamo la formazione e l’aggiornamento, soprattutto in settori a forte evoluzione tecnologica, come la termoidraulica, l’impiantistica elettrica, le autovetture, verificando il rispetto dei criteri di sicurezza per la clientela. Inoltre aiutiamo le imprese nella costituzione delle reti, contando su consulenti che ci indirizzano anche sui percorsi della globalizzazione. E a volte aiutiamo gli associati anche a protestare”.

Un presidente di lotta e di governo… ma anche andando a sbarrare le tangenziali?
“Mettiamola così: se per esempio si aspettano gli sgravi per i carburanti da autotrasporto ma questi sgravi non arrivavano mai, e le aziende rischiano di saltare, oppure quando noi rispettiamo le regole e i concorrenti stranieri no, c’è bisogno di farsi sentire. E quindi sì, al dissenso formale si affiancano anche contestazioni visibili, sia pure nel rispetto della legge: non facciamo barricate ma non ci manca la fermezza per richiamare l’attenzione. Però poi andiamo anche nelle scuole, per spiegare ai giovani che cos’è l’artigianato, ormai tutt’altro che chiuso nella bottega ma che anzi spesso precorre il mercato, a cavalcare l’onda delle tendenze e dell’innovazione. Per fortuna molti insegnanti cominciano a capirlo”.

Un impegno che vi fa onore, ma che si scontra con i dati del settore, ancora negativi.
“Vediamo il bicchiere mezzo pieno e consoliamoci pensando che rispetto all’anno scorso a Verona il saldo negativo tra imprese nate e chiuse è migliorato. Il primo trimestre 2016 era terminato con 223 cessazioni, e quest’anno erano 189: il risultato di 544 iscrizioni all’Albo Artigiani e della contestuale cancellazione di 733 aziende. Il totale supera comunque le 25 mila unità. Oltre a Verona è tutto il Veneto, comunque, ad aver chiuso il periodo gennaio-marzo con un saldo negativo. Mancano all’appello 788 imprese artigiane, con la provincia di Vicenza che guida la classifica negativa: tra aperte e chiuse ne ha perse ben 251”.

E a fronte di questa frenata progressiva che risposte avete ricevuto dalle istituzioni?
“Purtroppo i numerosi allarmi che vengono suonati puntualmente a ogni rilevazione sulla natalità e mortalità delle imprese artigiane sembrano essere ormai diventati solo un vago rumore di fondo alle orecchie di chi sarebbe invece chiamato a trasformare questo habitat inospitale in un ambiente favorevole alla nascita e alla crescita di micro, piccole e medie imprese. Non li sentono, e forse non interessa loro nemmeno più ascoltarli”.

Qual è il settore più colpito, l’epicentro di questo terremoto che non finisce mai?
“Da anni ormai a subire i contraccolpi peggiori sono l’edilizia e, in generale, il cosiddetto comparto casa che partecipa alle costruzioni, come l’installazione di impianti, il legno e arredamento e la metalmeccanica non dedicata a fabbricare macchinari e attrezzature. A questi si aggiunge l’autotrasporto, che vive una profonda crisi causata da regole sempre più rigide in Italia e la competizione sleale dall’estero. Tra chi ha resistito meglio spiccano l’alimentazione, che fino a pochi anni fa era addirittura in crescita, e i servizi alla persona, come acconciatori e imprese di estetica, che tengono grazie a barber shop, tatuatori, nail artist e così via. In piena crescita le aziende dell’informatica, la produzione di software, la consulenza e l’assistenza, oltre naturalmente alle nuove attività del settore ICT”.

Chiudiamo però in positivo, descrivendo l’artigiano del futuro: come vede il domani?
“Guardi, immagino un artigiano laureato, che sappia l’inglese e un’altra lingua, che abbia un progetto d’impresa e non sappia “solo” lavorare. E che mantenga l’umiltà di imparare il mestiere, sappia fare, voglia dare una mano agli altri e abbia una mentalità più aperta per tutelare il made in Italy. Siamo un Paese-brand e non dobbiamo lasciare questo valore alla concorrenza, perché dietro il prodotto si deve sentire la cultura: chi acquista italiano non compra solo un oggetto ma una storia, qualità, bellezza, tradizione, territorio. Gli stranieri ci apprezzano e vogliono entrare nel nostro mondo, assorbirne l’originalità e l’unicità. È un patrimonio da non disperdere: è la visione che fa grande un’azienda, non il fatturato”.

Stefano Tenedini

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