Marco Ottocento, di Valemour, incontra Cassiopea

Etica e responsabilità sociale? Meno assistenzialismo, più spazio al business 

Anche nelle situazioni difficili, dalla crisi all’inclusione dei disabili, il no profit deve imparare a ragionare in termini di risorse, redditività, valore aggiunto, mercato. La storia vincente di un’idea che cresce con partner internazionali …senza tristezze, ma con l’orgoglio del brand.
Marco Ottocento, è imprenditore sociale dal 1996. Dopo varie esperienze associative, nel 2007 crea la fondazione Più di un Sogno Onlus, in cui fa parte del direttivo ed è responsabile della raccolta fondi. Grazie alle sue competenze nell’industria tessile nel 2010 crea la cooperativa Vale un Sogno, che gestisce il marchio sociale Valemour, che ha l’obiettivo di dare sostenibilità economica ai progetti della fondazione nel mondo del lavoro. Come legale rappresentante cura le relazioni con gli altri brand e lo sviluppo di prodotti a marchio. Fa inoltre parte del gruppo raccolta fondi del coordinamento nazionale associazioni delle persone con sindrome di Down e dal 2014 è vicepresidente del Comitato Polis, rete di associazione del Veneto con lo scopo di promuovere iniziative per la vita sociale delle persone con disabilità intellettiva e relazionale.

Cominciamo così: non le dà fastidio anche solo l’idea di associare l’etica al profitto?
“Ma scherza? Se il tema è l’impresa etica non mi dispiace affatto parlare di business. Una cosa da modificare nel mondo del no profit è che bisogna cominciare a considerarlo un lavoro, un’opportunità, una risorsa anche economica. Questa è la logica che anima sia la Fondazione “Più di un sogno” Onlus, la cui missione è favorire l’offerta di un progetto di vita alle persone con sindrome di Down e disabilità intellettiva, compreso l’inserimento lavorativo, che Valemour, il brand sociale nato dalla fondazione. Il lavoro è necessario per nobilitare l’uomo, e questo vale per i diversamente abili come per i normodotati. E quindi anche questa iniziativa deve avere una sua sostenibilità, deve saper stare sul mercato”.

Ma come dev’essere strutturata questa formula perché funzioni davvero?
“Abbiamo creato una cooperativa che si occupa di inclusione lavorativa: di inclusione, non di integrazione, come se a qualcuno mancasse un pezzo. I ragazzi arrivano all’impiego dopo un periodo di preparazione e conquista dell’autonomia: diamo loro gli strumenti per andare a lavorare in un’impresa e pian piano costruirsi un loro percorso di vita. Non li facciamo lavorare noi, perché uno dei problemi delle coop è che quando va in crisi il settore manifatturiero a cui sono collegate, vanno in crisi anche loro. Noi infatti abbiamo scelto un approccio commerciale: la nostra attività è fornire un servizio di formazione del personale alle imprese”.

Una formazione molto particolare, perché parliamo dell’inserimento dei disabili.
“Esattamente. Perché mentre la legge 68/1999 regola le azioni di sostegno all’inclusione lavorativa dei disabili, di contro il pubblico per mancanza di risorse non riesce ad aiutare adeguatamente gli imprenditori ad assolvere questo obbligo. Noi andiamo in azienda, la analizziamo e individuiamo l’ambito in cui i ragazzi possono lavorare. Seguono alcuni mesi di preparazione ai compiti che dovranno svolgere: un periodo che può variare in base alle difficoltà del lavoro e della persona, anche in alternanza tra azienda e formazione in un ambiente protetto. Si parte solo quando tutto è pronto, e quando anche i colleghi hanno compreso differenze e difficoltà”.

E se si presentano delle criticità? Come le affrontate con i disabili e l’azienda?
“Con una vigilanza continua, perché l’autonomia è una conquista che va confermata tutti i giorni. Ci sono gli incontri, il monitoraggio, un’attività quasi da “sindacalisti a rovescio”. Ad esempio quando ci sono momenti di crisi o ristrutturazioni aziendali preferiamo riportare i ragazzi da noi in ambiente protetto, perché le difficoltà fanno saltare i punti di riferimento di cui hanno assoluto bisogno. Questo sistema funziona perché è credibile: l’impresa ha il supporto rispetto agli adempimenti di legge, la famiglia constata che l’inserimento avviene in modo sereno, e il ragazzo vede riconosciuti i suoi bisogni di stabilità, perché un lavoro ripetitivo alimenta i suoi progressi”.

Dicevamo che accanto alla formazione il no profit deve anche saper creare valore.
“Proprio così. Infatti per entrare in sintonia con il mondo delle aziende e parlare lo stesso linguaggio dell’impresa abbiamo creato il marchio Valemour. In questo modo riusciamo a essere ascoltati e perfino a stupirle, perché dimostriamo che anche noi possiamo utilizzare strumenti positivi come il brand e l’orgoglio di un’impresa che si vede riconosciuto ciò che vale. Valemour è un insieme di valori e glamour, crea progetti adatti al mondo scintillante della moda, del design, rappresenta un’unione ideale tra la redditività e l’etica senza però, e scusate se la definizione può dispiacere, la tristezza che di solito si associa al no profit”.

Quindi esiste un punto di equilibrio tra iniziative solidali e regole di mercato.
“Sì, ci deve essere assolutamente. Quello che fai deve essere utile ma deve anche piacere, creare attenzione, competere con la qualità, l’innovazione, i materiali, appunto il glamour. Abbigliamento, design, arredamento sono i settori più interessanti: il prodotto va studiato con una logica produttiva a portata di disabile ma anche per conquistare il mercato. La storia di Valemour è iniziata nel 2010 grazie a partner che sono brand conosciuti a livello internazionale: ognuno porta con sé una storia, un valore, un sogno”.

In che modo si concretizza la collaborazione tra Valemour e i partner di marca?
“Ci sono due possibili strade: le aziende ci forniscono i loro prodotti, noi li reinterpretiamo poi li rivendiamo direttamente con i nostri canali in edizione limitata, oppure in operazioni di co-branding dove noi interveniamo dando valore aggiunto ai prodotti però è l’azienda stessa che li commercializza. Abbiamo anche un sogno nel cassetto: andare da soli sul mercato con il nostro brand e raggiungere direttamente il nostro cliente-donatore ideale. Lo chiamiamo ethical fashion dreamer, una persona attenta alla moda, agli aspetti sociali ma soprattutto un sognatore. L’importante, per far funzionare il progetto, è che ci sia una collaborazione vantaggiosa che dia visibilità, reddito e valore sia a noi che alle imprese”.

Forte di queste esperienze come definirebbe la responsabilità sociale d’impresa?
“Secondo me è un vero successo e non solo una formula quando un’azienda che opera sul mercato e un’organizzazione no profit lavorano insieme e vincono insieme. Io credo che il brand sia il futuro del no profit e penso che Cantori, Geox, K-Way, In Job e tanti tanti altri partner condividano questa visione. Sono convinto che il mondo no profit debba e possa fare un salto di qualità. Da quando è nata la fondazione nel 2007 promuoviamo la logica della sussidiarietà: se vogliamo che la società includa i ragazzi disabili, dobbiamo noi per primi combattere l’assistenzialismo, perché il welfare stesso deve cambiare”.

E come immagina questa trasformazione nell’ottica dell’impresa?
“Attraverso la sussidiarietà. Un terzo delle risorse per il progetto di vita e l’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro deve venire dalle famiglie, che devono investire sui propri ragazzi, un terzo dalla raccolta fondi e un terzo dal pubblico, che grazie a noi risparmia un sacco di soldi. Insomma, a tutti una fetta di responsabilità, anche se nel caso dello Stato è difficile perché la burocrazia fa fatica a cambiare. Funziona perché genera un’economia di rete che mantiene al centro la persona e non lo spread, le relazioni e non i dividendi. Dalla crisi ad esempio si esce solo se si torna a un saper fare “artigiano”, dal volto umano”.

Ma quante sono le aziende disposte davvero a mettersi in gioco? Come vi accolgono?
“Devo dire la verità: io con Più di un Sogno e anche con Valemour di porte in faccia ne ho prese poche, davvero molto poche. Questo ci apre una speranza per il futuro. E comunque perché la responsabilità sociale venga veramente sentita e condivisa dalle imprese occorre restaurare un clima di fiducia, essere consapevoli che bisogna stabilire una relazione con una persona e non conquistare un consumatore. All’inizio è difficile, strano, poi si capisce che la via dello sviluppo si apre quando si è pronti a dare prima ancora che a ricevere”.

Stefano Tenedini

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