Denis Facioli, di Tecres SpA,

Nuove frontiere, prospettive tutte da inventare: un giovane imprenditore guarda al futuro.

Per far crescere il business lˈinnovazione è come lˈaria, perché si crea valore solo guardando continuamente oltre. E lˈinternazionalizzazione è come lˈacqua, con i rischi e le opportunità.

Made in Italy appannato dalla distanza tra cultura umanistica e scientifica: ci vorrebbe un Leonardo del Duemila. La responsabilità sociale dˈimpresa? Non è necessario parlarne tanto: anche se è un principio centrale, basta praticarla e generare benessere da poter distribuire.

Innovazione, tecnologia, ricerca… sembra che le imprese non possano più farne senza.
“La tecnologia e lˈinnovazione non sono un abbellimento, ma sono come lˈaria che respiriamo, un valore concreto dal quale non si può prescindere se si vuole far crescere le aziende. Mi riferisco in generale allˈinnovazione sia nella creazione del prodotto che anche solo nel processo produttivo, senza il quale non si va avanti. E non parlo solo di noi, che siamo unˈimpresa già decisamente attenta alla tecnologia, ma anche alle società di servizi”.

Ma guardare avanti è solo una questione di performance e macchinari?
“La predisposizione a guardare oltre, a immaginarsi nel futuro, deve entrare stabilmente nel Dna delle aziende: non è più un optional, ammesso che lo sia mai stato. Io sono fermamente convinto che dobbiamo puntare a vendere non solo il prodotto ma soprattutto il nostro valore aggiunto: e questo ti viene riconosciuto solo se proponi qualcosa di nuovo e di vincente”.

Certo che poi nel grande gioco della concorrenza sleale chi ci perde siamo sempre noi.
“Posso rispondere con un esempio decisamente controcorrente? Nel nostro campo i brevetti e la protezione della creatività sono fattori decisivi, e questo è evidente. Però quando la tecnologia sviluppata diventa patrimonio comune, viene copiata un poˈ da tutti. E sa una cosa? beh, la qualità migliora. A quel punto il valore aggiunto si può rigenerare solo se si continua a innovare”.

E questo significa che per le aziende la competizione è il sale dellˈevoluzione, giusto?
“Si, comporta lˈobbligo di essere sempre un passo avanti, altrimenti il valore non si percepisce. Del resto, diciamo la verità, un brevetto che ti protegge per 70 anni dalla concorrenza, ammesso che ci riesca, deprime lˈinnovazione, non la stimola. Andando nel concreto, comunque, il valore serve alle aziende per generare margini di profitto che aiutano a investire e prosperare. Il rischio altrimenti è di contenere i costi, una strategia che non ti porta da nessuna parte: senza innovazione ti rimane solo la leva del prezzo e se sei in guerra con i colossi sei destinato a perdere”.

Non appena si esce dai confini nazionali il gioco si fa durissimo: ne vale la pena?
“Lˈinnovazione favorisce lˈinternazionalizzazione, anche se a volte le due cose non vanno poi così dˈaccordo: ad esempio nel settore dei prodotti medicali incontriamo serie difficoltà in molti Paesi perché dobbiamo affrontare procedure e normative molto esigenti, aggravate dal fatto che siamo dei moscerini in un mondo di elefanti, come le multinazionali del settore farmaceutico. Cˈè un solo modo di sopravvivere, ed è disporre di prodotti sempre nuovi, restare un passo avanti, muoversi in fretta e magari cercare di infastidire lˈelefante e conquistare mercati sempre nuovi…”

Detta così sembra che basti avere qualche genio in laboratorio che sforna progetti.
“Magari. Lˈinnovazione è un processo lungo e delicato. Nonostante abbiamo ben 55 dipendenti su 70 impegnati in qualità, ricerca e sviluppo e vendite e solo 15 in produzione, per passare dallˈidea al mercato ci vogliono dai tre anni minimo in Europa ai cinque negli Stati Uniti e in Cina. Due anni servono per lo sviluppo del prodotto, gli altri per avere dalle autorità le autorizzazioni e il via libera alla registrazione. Certo, siamo comunque soddisfatti perché oggi anche in Cina quasi tutta la nostra linea di prodotti è autorizzata, ma le difficoltà non finiscono mai: lˈEuropa chiede un rinnovo solo se cambia qualcosa nei prodotti, in Cina scadono comunque ogni quattro anni”.

Colpa della globalizzazione? Viene quasi da rimpiangere i tempi in cui esportare era facile…
“Il terzo mondo con le maglie larghe dove passava di tutto non esiste più. Dappertutto ormai ci sono buoni livelli di protezione per il cliente, il consumatore o il paziente, e naturalmente è giusto così. Anzi, a volte sono loro a nutrire dei dubbi sulla validità delle autorizzazioni italiane… oltre ad avere un livello di burocrazia che non ha niente da invidiare al nostro. La verità è che noi italiani allˈestero siamo sfavoriti da unˈimmagine appannata e dallˈassenza di un sistema Paese, mentre in termini di tecnologia e di cultura dˈimpresa siamo ben considerati”.

Riuscite ad avvantaggiarvi della forza del Made in Italy?
“Non tanto. È evidente che nel settore medicale non possiamo contare sul sostegno e sul glamour delle automobili, del design, della moda o dellˈalimentare… insomma, sullˈetichetta Italia. Infatti anche se al biomedicale è riconosciuta unˈelevata qualità, ci dicono: voi siete bravi con il design, la ricerca lasciatela agli altri. Il dramma è che non hanno neanche torto: noi vorremmo lavorare con le università italiane ma non sempre si ottengono i risultati attesi nei tempi necessari, mentre sono gli atenei e i centri stranieri a chiamarci per fare ricerca insieme. Da noi ci vorrebbe un Leonardo del Duemila, capace di far convivere cultura scientifica e patrimonio umanistico e aiutare i giovani a superare le difficoltà di approccio al lavoro, restituendo loro lˈentusiasmo e la visione”.

Se lˈestero è così impegnativo non vi viene la tentazione di rafforzare il mercato interno?
“No, in Italia soltanto non potremmo lavorare. Ci sono vantaggi e potenziali pericoli, ma se per noi lˈinnovazione è lˈaria, lˈinternazionalizzazione è come lˈacqua. Fatturiamo allˈestero quasi lˈ85% del prodotto: siamo in una nicchia, e senza esportare non esisteremmo proprio! Chi ha per obiettivo il mondo per forza di cose deve aprirsi, evolversi, soddisfare i requisiti tecnici per tutti i mercati e adattarsi alle esigenze degli altri Paesi. Ad esempio siamo stati tra i primi a inserire il marchio CE e a tradurre tutto in inglese. Controindicazioni per lˈexport non ne vedo, però poi occorre sostenere investimenti e costi importanti, oltre ad avere le giuste relazioni e partnership”.

Che cosa rende davvero vincente unˈazienda internazionale? E che vantaggi ne ricava?
“Sicuramente la buona reputazione, data da comportamento e attenzione alla qualità, soprattutto se si tratta di delocalizzare la produzione. In cambio, lˈestero porta competenze ed esperienze: chi non guarda fuori è morto, chi esce si arricchisce anche di risorse umane, un patrimonio di persone di scuole diverse e approcci differenti che diventano acceleratori di innovazione e competenze”.

Si parla molto, e giustamente, di valore sociale dellˈazienda. Qual è la sua opinione?
“La responsabilità sociale dˈimpresa è un valore fondamentale per un imprenditore. Anzi, la si deve sentire a prescindere dai vantaggi che comporta, anche solo per gli obblighi etici che derivano dal fatto di guidare unˈazienda che ha il compito di generare valore e distribuirlo. Non si può ignorare questa responsabilità: il profitto non si genera da solo ma grazie al territorio, a risorse motivate, a un prodotto di qualità, alla ricerca, e tutto armonizzato con lˈattività dˈimpresa. Mi lasci ribaltare il concetto: lˈazienda che funziona è virtuosa anche se non parla di solidarietà sociale, basta faccia bene il suo mestiere di impresa… non è un peso per la società, anzi contribuisce al benessere”.

Insomma, anche in questo caso è questione di sostanza più che di etichette.
“Lˈimportante è non contrapporre più impresa e lavoro, equità e ricchezza, impresa e ambiente, impresa e società… Così si alzano steccati che creano più problemi di quanti in realtà ce ne siano, e si fanno scappare le aziende. Lavoriamo piuttosto insieme per generare benessere diffuso, creare tecnologie e valorizzare la cultura. Socialmente responsabili? Per riscoprire i valori dellˈimpresa è meglio esserlo che dirlo: in fondo non si distribuisce la ricchezza che non si produce”.

Stefano Tenedini

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